giovedì 2 ottobre 2014

La Grande Guerra di latta





La Grande Guerra di latta


La Grande Guerra raccontata dalle scatolette, ovvero dagli alimenti consumati dai soldati nelle trincee. Alimenti il cui sapore era spesso mescolato all’adrenalina per un attacco imminente e all’odore della polvere da sparo che, a ondate, copriva la puzza dei cadaveri in putrefazione poco oltre la linea di reticolati.

Allo scoppio del conflitto le industrie per la conservazione degli alimenti trovarono nelle forniture militari  terreno fertile per incrementare la produzione. Oggi i collezionisti si contendono questi “resti”, scambiandosi  i pezzi mancanti e cercando di completare un puzzle complesso, fatto di varianti e colorazioni diverse.

«La grande guerra di latta» è anche un libro che ci riporta al quotidiano della vita dei soldati italiani impegnati su 600 chilometri di fronte nel periodo 1915/18. Ci riporta alle loro sofferenze attraverso un’ottica insolita, non quella dell’eroe che si sacrifica per la Patria ma dell’uomo che affida la sua sopravvivenza a quelle coloratissime scatole di latta, contenenti pesce o carne. Ma anche burro o prosciutto, dadi per il brodo o mortadella. Lo hanno scritto a quattro mani Giovanni Dalle Fusine, giornalista e scrittore (nonchè dirigente del Museo della Grande guerra di Canove, sull’Altopiano di Asiago), e Gianluigi Demenego, cuoco ed escursionista. Per anni hanno raccolto reperti nelle zone di guerra, hanno fatto certosine ricerche d’archivio e poi con passione hanno ricomposto il mosaico. Il risultato non è solo una raccolta di cimeli, ma una rappresentazione insolita della guerra. Fa notare Patrizia Stano della Rizzoli Emanuelli Spa, azienda di Parma che ancora oggi produce le alici in salsa piccante che venivano distribuite ai soldati italiani (stessa ricetta, stessa scatola): «Nessuna foto d’epoca ci potrà mostrare i colori percepiti dagli eserciti durante la Grande Guerra, paradossalmente riesce nell’impresa un modesto barattolo strappato al campo di battaglia».

Ai soldati italiani nel corso del conflitto furono distribuite qualcosa come 200 milioni di scatolette. Contenevano 220 grammi di tonno o di carne ciascuna, ma potevano essere consumate soltanto dopo il nulla osta superiore, ovvero quando mancava il rancio caldo prodotto dalle cucine da campo. Le razioni alimentari dovevano assicurare al soldato circa 4.350 kcalorie, ma alla fine del 1916 la razione venne ridotta e il morale della truppa ne risentì. La disfatta di Caporetto era alle porte, preceduta dalle sanguinose battaglie sull’Isonzo. Sul fronte del Piave a rivitalizzare l’animo dei soldati contribuì anche l’aumento della quantità di cibo distribuita. Ancora oggi non è raro trovare nei luoghi dei combattimenti della scatolette arrugginite aperte dai soldati prima della battaglia. Alcune però hanno miracolosamente conservato i propri colori, mostrando la pregevole grafica dei marchi. Alcuni storici come la Cirio o la Bertolli. C’erano prodotti etichettati con nomi patriottici “Antipasto finissimo Trento e Trieste” o “Alici alla Garibaldi”, “Filetti Savoia”, “Antipasto Tripoli”. La bandiera italiana compare spesso.

La razione alimentare distribuita ai kaiserjager autroungarici durante la guerra era inferiore a quella dei colleghi italiani (200 grammi di carne in brodo), tanto che per rimpinguare la dotazione il governo imperiale dovette importare scatolame dalla Norvegia. Ma le sorti del conflitto erano già segnate.

Infine non va dimenticato l’aiuto delle famiglie dei militari al fronte, tra l’altro incentivato dal Governo con l’istituzione delle Madrine di guerra. I congiunti spesso inviavano per posta ai propri cari indumenti e lettere, ma pure alimentari con cui la truppa rimpinguava la scarsa fornitura di cibo delle corvee alle prime linee. Barattoli prodotti dal mercato privato e civile si mescolavano quindi alle forniture militari (fonte: La Tribuna di Treviso, 20 gennaio 2014).




L’ora del rancio















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