giovedì 2 ottobre 2014

Reperti in mostra


Reperti in mostra



L'elmetto Adrian indossato al fronte dall'avv. Ulisse Cambria (1882-1961), capitano di fanteria di Milazzo, ferito gravemente al capo da una scheggia di munizione, come si evince dal foro visibile nello stesso elmetto (gentile concessione del nipote dott. Ulisse Cambria).


















Guerra di trincea





Guerra di trincea


Nel maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all'Austria-Ungheria e si venne così a creare il lungo fronte italo-austriaco che giungeva sino all’Adriatico. Gran parte di questo fronte era dislocato proprio nell'estremo nord-est del Friuli, tra Italia, Austria e Slovenia, arrivando fino al Carso. In questo fronte si combatté una guerra definita di di trincea. Quelle trincee furono scavate dagli stessi soldati, assecondando la tipologia del terreno. Entrambi gli schieramenti, davanti alle rispettive trincee, avevano posizionato chilometri di reticolati di filo spinato. La zona compresa tra le trincee avversarie era chiamata terra di nessuno e dopo un assalto diventava un vero e proprio ammasso di cadaveri, feriti e crateri.

Ma il superamento delle barriere di filo spinato era  indispensabile per penetrare nella trincea nemica e così si erano costituite le cosiddette “Compagnie della Morte”, composte da volontari, che, attrezzati con pinze taglia-fili, riuscivano ad aprirsi dei varchi nella fitte matasse di filo spinato. A protezione di questi “guastatori” erano state costruite speciali corazze antiproiettile. In Italia furono utilizzate le "corazze Farina", le quali però avevano l’inconveniente di pesare molto e di rendere impacciati i movimenti.

Utili per  colpire bersagli in movimento e aprire ampi corridoi nei reticolati nemici furono anche le "lancia-torpedini" e si deve al capitano del Genio, Alberto Bettica, torinese, il brevetto di un tipo di lanciatorpedine e del suo relativo proiettile, detto "tubo Bettica”. Le peculiarità principali dell’arma di Bettica consistevano nell’agevole trasportabilità, dovuta al peso modesto, e nella facilità del suo assemblamento.

Caratteristico dell’attacco delle trincee nemiche era l’impiego della bomba a mano, la cosiddetta granata tipo SIPE, dalla denominazione del fabbricante: la Società Italiana Prodotti Esplodenti di Milano. Ma anche la granata a mano lenticolare, un piccolo disco esplosivo da lanciare «come un sasso».

Durante la prima guerra mondiale l’uso delle bombe a mano andò aumentando sempre più fino a diventare uno degli strumenti più utilizzati in quella che era divenuta una guerra stanziale fatta di trincee e fortificazioni varie. In questo contesto le nazioni belligeranti svilupparono vari artifizi per aumentare la distanza a cui le “b.a m.” potevano essere lanciate e di conseguenza incrementare le proprie capacità offensive. Uno di tali artifizi  è rappresentato dalla  bomba per fucile Benaglia”. Il suo utilizzo era molto semplice, dentro la canna dell’arma veniva inserito il codolo dell'ordigno, mentre il puntamento veniva effettuato poggiando il calcio del fucile a terra.

 Trincea italiana al fronte italo-austriaco




 Da una nota lapide del Sacrario di Redipuglia




 Corazza Farina (Tribuna Illustrata, 2-9 gennaio 1916)





 Lancia-torpedine Bettica pronta per lo sparo (dal Museo della Guerra di Rovereto)




 Il lancio della torpedine o tubo Bettica per distruggere i reticolati del nemico che attaccava i guastatori italiani anche dalle cime delle montagne






 Granata a mano lenticolare




 Bomba per fucile “Benaglia”

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La Grande Guerra di latta





La Grande Guerra di latta


La Grande Guerra raccontata dalle scatolette, ovvero dagli alimenti consumati dai soldati nelle trincee. Alimenti il cui sapore era spesso mescolato all’adrenalina per un attacco imminente e all’odore della polvere da sparo che, a ondate, copriva la puzza dei cadaveri in putrefazione poco oltre la linea di reticolati.

Allo scoppio del conflitto le industrie per la conservazione degli alimenti trovarono nelle forniture militari  terreno fertile per incrementare la produzione. Oggi i collezionisti si contendono questi “resti”, scambiandosi  i pezzi mancanti e cercando di completare un puzzle complesso, fatto di varianti e colorazioni diverse.

«La grande guerra di latta» è anche un libro che ci riporta al quotidiano della vita dei soldati italiani impegnati su 600 chilometri di fronte nel periodo 1915/18. Ci riporta alle loro sofferenze attraverso un’ottica insolita, non quella dell’eroe che si sacrifica per la Patria ma dell’uomo che affida la sua sopravvivenza a quelle coloratissime scatole di latta, contenenti pesce o carne. Ma anche burro o prosciutto, dadi per il brodo o mortadella. Lo hanno scritto a quattro mani Giovanni Dalle Fusine, giornalista e scrittore (nonchè dirigente del Museo della Grande guerra di Canove, sull’Altopiano di Asiago), e Gianluigi Demenego, cuoco ed escursionista. Per anni hanno raccolto reperti nelle zone di guerra, hanno fatto certosine ricerche d’archivio e poi con passione hanno ricomposto il mosaico. Il risultato non è solo una raccolta di cimeli, ma una rappresentazione insolita della guerra. Fa notare Patrizia Stano della Rizzoli Emanuelli Spa, azienda di Parma che ancora oggi produce le alici in salsa piccante che venivano distribuite ai soldati italiani (stessa ricetta, stessa scatola): «Nessuna foto d’epoca ci potrà mostrare i colori percepiti dagli eserciti durante la Grande Guerra, paradossalmente riesce nell’impresa un modesto barattolo strappato al campo di battaglia».

Ai soldati italiani nel corso del conflitto furono distribuite qualcosa come 200 milioni di scatolette. Contenevano 220 grammi di tonno o di carne ciascuna, ma potevano essere consumate soltanto dopo il nulla osta superiore, ovvero quando mancava il rancio caldo prodotto dalle cucine da campo. Le razioni alimentari dovevano assicurare al soldato circa 4.350 kcalorie, ma alla fine del 1916 la razione venne ridotta e il morale della truppa ne risentì. La disfatta di Caporetto era alle porte, preceduta dalle sanguinose battaglie sull’Isonzo. Sul fronte del Piave a rivitalizzare l’animo dei soldati contribuì anche l’aumento della quantità di cibo distribuita. Ancora oggi non è raro trovare nei luoghi dei combattimenti della scatolette arrugginite aperte dai soldati prima della battaglia. Alcune però hanno miracolosamente conservato i propri colori, mostrando la pregevole grafica dei marchi. Alcuni storici come la Cirio o la Bertolli. C’erano prodotti etichettati con nomi patriottici “Antipasto finissimo Trento e Trieste” o “Alici alla Garibaldi”, “Filetti Savoia”, “Antipasto Tripoli”. La bandiera italiana compare spesso.

La razione alimentare distribuita ai kaiserjager autroungarici durante la guerra era inferiore a quella dei colleghi italiani (200 grammi di carne in brodo), tanto che per rimpinguare la dotazione il governo imperiale dovette importare scatolame dalla Norvegia. Ma le sorti del conflitto erano già segnate.

Infine non va dimenticato l’aiuto delle famiglie dei militari al fronte, tra l’altro incentivato dal Governo con l’istituzione delle Madrine di guerra. I congiunti spesso inviavano per posta ai propri cari indumenti e lettere, ma pure alimentari con cui la truppa rimpinguava la scarsa fornitura di cibo delle corvee alle prime linee. Barattoli prodotti dal mercato privato e civile si mescolavano quindi alle forniture militari (fonte: La Tribuna di Treviso, 20 gennaio 2014).




L’ora del rancio